a cura di Antonella D’Avanzo

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Una vita tranquilla, lontana dal caos e dalla frenesia metropolitana per un quotidiano fatto di aria buona. Natura, storia, arte, fede e tanta genuinità, soprattutto a tavola.
Questo a Sant’Angelo d’Alife. Un piccolo centro matesino disposto a scacchiera sulle pendici di una collina dove, in cima, nel corso del X secolo fu costruito un insediamento fortificato: il castello Rupecanina.

Il Castello di Rupecanina

Un abitato che, grazie alla presenza di grotte naturali particolarmente adatte ad accogliere insediamenti umani, è stato vissuto fin dalla preistoria. Il centro storico è costituito da residenze a corte interna, del XVIII e del XIX secolo, da interessanti edifici religiosi e dalla Piazza Umberto I, sulla quale si affacciano il Palazzo del Comune ed il settecentesco Palazzo dei Serra di Gerace, ora Windisch-Graetz.
Molto importante è la Cappella dedicata a S. Antonio Abate che conserva un ciclo di affreschi risalenti agli inizi del XV secolo di attribuzione incerta ma considerato uno dei più importanti della Campania. È un luogo dove è sorprendente scoprire come la tradizione si sia tramandata fino ai giorni nostri. La tradizione di un pane rituale dotato di elevati significati simbolici e culturali che affonda le sue radici nella notte dei tempi, antica quasi quanto i volti scolpiti e rugosi degli anziani che ti guardano incuriositi dall’uscio di casa.

È il Biscotto di San Michele, un “fossile gastronomico” entrato a far parte nel novero dei prodotti agroalimentari tradizionali della Regione Campania con il Decreto 5 giugno 2014. Un traguardo tagliato grazie all’impegno e all’attività di ricerca della Pro Loco “Santangiolese” che ne ha recuperato la storia e la ricetta.

Questo biscotto, con la sua storia millenaria, è un interessante esempio di sopravvivenza di un antichissimo culto offertuale-propiziatorio in favore della divinità protettrice locale. Sulle propaggini del Matese, nei pressi di Sant’Angelo d’Alife, vi è una piccola grotta dedicata all’Arcangelo Michele, dove da tempo immemorabile, il 29 settembre di ogni anno, si celebrano i riti in onore di San Michele Arcangelo. In questa occasione vengono prodotti i biscotti per essere donati o venduti in cambio di offerte ai partecipanti alla festa, che organizzano un locale pellegrinaggio al santuario annesso alla grotta.
I pastori e i contadini usavano indossare i biscotti a mo’ di bracciali e portarli con sé per consumarli anche nei giorni di lavoro seguenti la festa. Era inoltre usanza farli indossare al collo o alle braccia dei bambini, in segno di protezione.

La particolarità sta nella forma a “tarallo” gigante e nella doppia cottura: prima di essere cotto nel forno a legna, viene “scottato” per qualche minuto in acqua bollente, allo scopo di conferire in superficie un aspetto più levigato. La diffusione di questo pane rituale, di origine Longobarda, che lega la tradizione pagana e quella cristiana, è limitata alla comunità di Sant’Angelo d’Alife e alla “Festa di San Michele Arcangelo”.
Gli ingredienti con cui è realizzato sono poveri e semplici, farina di grano tenero, acqua, semi di finocchio selvatico e “criscito”.
Questo caratteristico procedimento avvicina molto questo prodotto al più noto brezel della cultura germanica, ottenuto mediante un processo del tutto simile, e ampiamente consumato durante la Oktoberfest, che cade nello stesso periodo
dell’anno.

A rafforzare questa ipotesi basta notare che, il nome brezel deriva dal latino braccellum, piccole braccia, ricordate dalla tipica forma ripiegata a croce che ne denota la sua origine-funzione rituale. Inoltre, esattamente come accade per il biscotto di Sant’Angelo d’Alife, che viene infilato sulle braccia, anche il brezel viene indossato dai partecipanti al rito, tenuto appeso al collo.

 

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